Consigli per una lettura dell’«Orlando furioso» (1940)

«Leonardo», a. XI, n. 5-6, Roma, maggio-giugno 1940, pp. 145-148. L’articolo è una sintesi dell’introduzione alla coeva scelta antologica ariostesca nel vol. II dei «Classici italiani» diretti da L. Russo.

Consigli per una lettura dell’«Orlando furioso»

Se la critica idealistica ha dato una approssimazione potente della poesia ariostesca, desta ora sorpresa come la critica nuova sorta sui presupposti simbolistici non abbia considerato l’Ariosto e non abbia sentito la ricchezza totale di questa poesia senza residui, senza limiti oggettivistici e pur cosí profondamente intellettuale, cosí valorizzante il tempo interno e la facoltà della memoria, cosí inconclusa ed unitaria (in ogni episodio è poema), cosí mossa da un amore allusivo che spezza la vecchia sillogistica del paragone.

Si constaterà intanto che ogni interpretazione basata sui personaggi intesi drammaticamente piú che come semplici nuclei di incontri, di pretesti alle avventure e alla gioia della fantasia, è destinata a fallire, tanto i personaggi sono lontani da una vera coerenza interna che li isoli e li faccia centri di poesia: donde la nostra cura di eliminare ogni spiegazione psicologica che prolunghi arbitrariamente la vita funzionale dei personaggi rispetto alla musica che li trasporta e che in loro si rifugia quel tanto che basta per coordinare e serrare i suoi movimenti. Angelica cosí, per dare un esempio di educazione alla lettura dell’Orlando, è soprattutto la «bella donna», una forma di femminilità, di bellezza che trascorre per il poema, scatena fughe e inseguimenti e già nella pazzia di Orlando svanisce per ricomparire nell’episodio di Medoro tenera e materna, completamente cambiata. È una prima intuizione quella che basta al poeta e l’arricchimento di essa è musicale non psicologico, umano sí ma non drammatico, e sono inizi di svolgimenti fantastici, di arabeschi musicali quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità coesistenti con la grazia del suo riposo nel bosco fiorito, non dati di un carattere da legare in una coerenza psicologica. E cosí in Orlando a volte c’è solo il «conte», a volte il pazzo scatenarsi di un subconscio dopo tanta padronanza di sé, a volte una figura comica che sgambetta e provoca tanti bei giuochi di fantasia, tante rovine gustose, tante morti acrobatiche. Se questo carattere musicale vive in tutto il poema, va però spiegato non come quella vaga musicalità di cui si parla a proposito di tutti i poeti, ma come una particolare esigenza dell’Ariosto nel creare il suo mondo. Questo mondo infatti è un sopramondo rinascimentale, quasi l’al di là del naturalismo umanistico, la forma aerea e metafisica della esperienza personale dell’Ariosto nella conoscenza dei motivi fondamentali, primordiali della vita. Un sopramondo unitario, appoggiato su di un senso della vita non piú in polemica antimedievale, ma avvivato da un implicito problema dell’irrazionalità del reale e contemporaneamente dai valori umani essenziali.

Un sopramondo in cui l’Ariosto entrava, scivolava senza rinunce e senza astratte allegorie, senza la fatuità della fiaba e senza il compenso di un escluso. In questo sopramondo che l’Ariosto tiene aperto da tutti i lati e che viene attaccato quasi senza inizio, perché noi ci troviamo subito dentro senza sbalzi per additare ogni rifiuto alla tentazione della inventiva romanzesca (donde l’atteggiamento di cantastorie e la ripresa apparentemente pedissequa del fatto dell’Orlando Innamorato), la poesia nasce sui motivi essenziali della vita concretamente sperimentata da cui l’intelligenza enuclea come filo conduttore della creazione il senso della vita e della natura per poi lasciarvi correre, in un’atmosfera soprareale, la fantasia. È cosí che il casuale, l’errare, che fa pensare contenutisticamente all’errare degli uomini nella selva intricata della vita, sono il prodotto della musica sull’offerta dell’intelligenza.

È cosí che il tempo e lo spazio, sentiti nella loro qualità piú intima all’uomo, vengono fusi in una visione che del movimento naturale ha solo l’addentellato dell’energia. È cosí che i colori sono presi nella loro intrinseca purezza, nel loro valore metafisico, senza il tono sentimentale che avranno, per esempio, nel Tasso. È cosí che non c’è né satira, né esaltazione della cavalleria, in un piano in cui non si trattano istituzioni o costumi, ma si trasporta un ritmo di vita libera e avventurosa nel ritmo di avventure ingiudicabili, musicali e visive (e perciò ogni richiesta o di patriottismo o di piú complicati sentimenti morali diventa sciocca, a parte ogni considerazione storicistica che infirma le invettive contro gli stranieri, piú letterarie che politiche), dove fioriscono azioni poetiche dal germe dei sentimenti essenziali dell’anima umana. E se qualche volta i bisogni pratici del cortigiano spingono l’Ariosto a parti interessate, in generale la cortigianeria è qui decorazione di sentimenti solo nella vita pratica biasimevoli.

Quando si sia allontanata ogni richiesta psicologica, realistica, ideologica, ogni posizione combattiva e anche ogni posizione di indifferenza umana, quando si sia sentito che la poesia ariostesca è al disopra della distinzione gioia-dolore, si vede che tutto ciò è possibile perché l’Ariosto mirava dentro la sua memoria divina alla costruzione di un mondo che non fosse solamente un sogno o una semplice idealizzazione del mondo reale, e tanto meno la rappresentazione di una tesi o di un programma comunque profetico, ma di un mondo assoluto, basato sul ritmo, sulla coerenza stilistica, sul puro fluire della visione.

Allora le equivalenze pittoriche e musicali vengono facilmente a indicare non assurde trasposizioni, ma reali somiglianze di metodo artistico per la maggiore evidenza di purezza che quelle arti offrono nel loro procedere. Si pensa alla civiltà decorativa rinascimentale e si vede in essa la vera cultura ideale dell’Ariosto, il suo clima piú omogeneo, ed è magari la idealità raffaellesca o d’altra parte i puri schemi di Piero della Francesca e la bizzarria di Paolo Uccello. Questo mondo di puri valori estetici e d’altra parte non macchiato di calligrafia e di rinuncia, lo chiameremmo sopramondo rinascimentale quasi rappresenti l’al di là di quel naturalismo, che il Machiavelli invece sognava nella sua potente presenza politica. E potremmo chiamare per un momento surrealistico (pur sapendo il limite di tali indizi) il metodo ariostesco nel senso apollinairiano della parola, per accentuare il carattere libero dell’Ariosto sia dal realismo che da un gusto ornamentale, surrealismo consistente nel prendere un lato della realtà (colore puro, geometria, ritmo di un’azione errabonda) e poi crearne con la fantasia una soprarealtà in cui non forme astratte, ma le cose stesse in uno spazio e in un tempo nuovi vivono una loro nuova coerenza. A volte si può notare una concretezza ed una minuziosità di descrizione che ha fatto pensare ad un realismo oggettivistico, ma in realtà in questo mondo la natura è solo la riprova della fede ariostesca, una natura fatta surreale seguendo le sue leggi, adorandone l’organicità.

E questo sopramondo naturalistico si svolge sulla trama di un rabesco dell’intelligenza, sul ritmo di un viaggio senza fine che l’intelligenza ha liberato dalla rappresentazione che essa si è fatta della vita e dei sentimenti dell’uomo. Perciò le sue leggi sono musicali e le sue proporzioni quelle di una geografia sterminata e limitata insieme, di un paesaggio animato dalla corsa e variato di sfumature pittoresche.

Perciò la nascita della situazione ariostesca non è la meditazione su di un punto del nostro tessuto visivo e intimo, la riprova degli echi che un pensiero o una visione suscitano nel sentimento, ma piuttosto il trasferimento di una volontà ordinatrice dal piano dell’intelligenza a quello della fantasia. Perciò si esclude il tono fiabesco come costante nell’Orlando e si sente che il disegno melodico non si muove nel vuoto o nei limiti della miniatura, ma in un’aria scaldata dalla presenza totale, umana del poeta.

Il viaggio ariostesco (il viaggiatore sul mappamondo della terza satira) presuppone nella maniera piú chiara il senso soprareale dello spazio: illusorio e pure concreto, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente accorciate, cui collabora un tempo ora rallentato ora fugace, intimo al desiderio della memoria e pure presente come la divisione delle giornate reali. Questo sopramondo vive in questa geografia ricca e sfumata, a volte preciso paradiso naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di un’Europa medievale che all’Ariosto veniva dalle epopee cavalleresche: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra francese. Bisogna sentire che l’epica medievale romanza è stata come la cultura generale europea, quasi il presupposto della formazione fantastica dell’uomo moderno, il riferimento piú sicuro ai suoi sogni, al suo bisogno di errare e di evadere fantasticamente, e che l’Ariosto enucleava, dai racconti cavallereschi, il sapore, il clima romanzo e in esso faceva vivere quel ritmo strappato alla vita e diventato musica. Per prendere un esempio moderno, l’Europa medievale cercata e rifatta non come medievale, ma alleggerita e resa suggestiva, allusiva appunto per la sola presenza di un paesaggio evocativo e non di una storia precisa, è per l’Ariosto quello che Parigi e poi la spiaggia atlantica furono per Proust, e come questi frugò nei Gotha per le sue genealogie nobiliari cosí precise ed irreali, cosí l’Ariosto riporta nella trama della fantasia le tradizioni dei suoi cavalieri.

Un paesaggio, quello ariostesco, la cui concretezza e la cui surrealtà stanno proprio nella semplicità di evocazione con cui l’Ariosto ce lo presenta senza mai farne un protagonista voluto del poema. Anche quando si coagula in precisi aggregati di natura (l’isola di Alcina, il castello di Atlante ecc.), il paesaggio non ci è imposto come fine ultimo di una descrizione, ma è sempre pronto a sfarsi in quella specie di mappa fantastica che, in quanto tale, rende metafisici gli spazi, le proporzioni della terra. È in questa mappa bizzarra e allusiva che si stabilisce l’unità piú evidente delle avventure del poema e anche delle novelle che si incastonano episodicamente nel ritmo generale.

Diremo subito che queste bellissime novelle, che incontriamo nel poema e che potremmo estrarre solo per polemica contro chi vede unicamente la linea del racconto e l’importanza dei personaggi principali, vivono anche come contrappeso alle sentenze sul ritmo della vita che l’Ariosto sviluppa musicalmente, ma che ogni tanto ferma non in esempi moralistici ma per trovare una precisione piú minuta di quella grande linea. In queste novelle, che ci fanno pensare anche alle grandi novelle inserite nel viaggio di Don Chisciotte, confluisce con trapasso piú immediato, ma piú minuzioso, la saggezza ariostesca, la sua sapienza amorosa che non volendo creare una casistica o una precettistica (il che non avviene neanche nelle sentenze all’inizio dei canti, che vivono proprio della leggerezza non cui un problema morale vi appare risolto) si sottomette al servizio di particolari giuochi melodici. Chi sente nella novella di Marganorre una condanna contro il misoginismo? chi nel racconto di Olimpia una condanna di un tradimento coniugale?

La saggezza è stata presa nella sua forma pura ed è diventata armonia. Certo spesso vi si potrà cercare anche una funzione immediata di racconto; come nella novella di Fiammetta, narrata prima della morte di Isabella, si potrà vedere l’intento di far risaltare la sublime fedeltà della gentildonna dopo l’affermazione della infedeltà di tutte le donne (come se l’autore volesse contraddire subito una legge generale e perciò ingiusta con un caso concreto di esaltazione della virtú), o meglio per fare sbocciare quell’atto generoso dal pieno della leggerezza ed istintività della vita. Ma oltre a questa esistenza funzionale le novelle hanno una loro vita che andrebbe rilevata piú di quello che di solito non si faccia. Spesso si rifugia in esse quel tanto di fiabesco e di miniaturistico e di melodrammatico da opera buffa cui l’Ariosto poteva arrivare spingendo avanti il suo gusto di movimenti leggeri e affrettati, di accorciamenti minuti ed organici, di sentimenti stilizzati in tutta la loro complessità. È allora che certe novelle hanno l’aria quasi della Chartreuse de Parme, per quanto su di un ritmo sempre piú fantastico dell’intrigo stendhaliano, è allora che rivediamo delle figurine sottili, dei paesaggi scarnificati come nella novella di Marganorre o di Norandino. Se quest’aria piú da opera buffa circola in alcune novelle, nell’aria generale del poema ogni gustosità è però rapidamente investita dal vento sano della musica che la rende piú vera e universale. Quando ci si eleva alla considerazione veramente estetica dell’Orlando come di un’opera dove la psicologia ha la funzione che può avere in un grande quadro o in una grande opera di musica e si ha coscienza di accedere ad un mondo senza riferimenti pratici, cade ogni discussione sull’ironia e se il limite possibile di questa realtà è la fiaba, la miniatura, il giuoco, non si può non avvertire quanto sia stonato l’insistere sul riso, sulla burla, sul poeta che gode e si frega soddisfatto le mani: si sente invece che l’ironia non è che la disinvoltura descrittiva, spesso un espediente per agevolare un trapasso (è ormai pacifica la constatazione della agilità ariostesca, di quel divino prendere, interrompere, riprendere i diversi motivi senza la minima durezza, senza l’apparenza di un calcolo compositivo che è per noi la riprova delle misure musicali che abbiamo rilevato nel costruire ariostesco), spesso un ghiribizzo gustoso, spesso l’intelligenza che taglia ogni possibile abbandono, ogni piega facile, ogni canto esuberante.

Non c’è perciò ambiguità umana nel suo costruire, ma solo il coraggio di una immediata trasposizione, di un approfondito ritmo della vita in condizioni e proporzioni di soprarealtà.

In questa poesia che adopera la «deformazione» (e possiamo adoperare la parola sia pure cautamente per quanto di quattrocentesco c’è ancora nell’Ariosto e per il permanere eterno di essa in ogni vera, anche cinquecentesca trasfigurazione) non per bizzarre trovate, ma per bisogno di proprie misure, sí che fa avvertire l’intima sua presenza anche dove il poeta sembra esaminare accademicamente un nudo, o scientificamente un oggetto di natura, la fantasia ariostesca limita ed apre le sue precisazioni musicali oltre la semplice idealizzazione della realtà:

quello ippogrifo grande e strano augello ...

Cosi l’abolizione della maniera tradizionale dei paragoni basati su di un parallelismo logico o su di una semplice illuminazione dell’immagine all’idea piú oscura e la sostituzione di implicite analogie che si liberano dalla servitú logica del contesto e ne decantano il senso piú intimo pur nella massima chiarezza ragionativa

(languidetta come rosa,

rosa non colta in sua stagione sí ch’ella

impallidisca su la siepe ombrosa)

indicano l’intento ariostesco di creare un mondo senza riferimenti, senza compensi, senza equivalenze, un mondo di autonomia assoluta e pure non di astratta e maniaca solitudine.

Cosí non appena l’Ariosto si trasforma (ed è raro) in puro descrittore, cronista, quasi dimenticando di quale alta storia è interprete, diventa letterario, infelice, ed è anche perciò che pure questi momenti deteriori, di tradimenti alla patria ideale, sono sollevati a zone neutre dalla continuità del ritmo, anche là dove la musica è piú meccanica.

Il metodo nuovo è a volte evidente anche esteriormente, come nell’episodio del servo col girifalco e il cane alla caccia di Ruggero (VIII, 4), ma sempre, scopertosi in quelle occasioni, opera l’incanto che non ci fa piú chiedere distinzione fra illusione e realtà e alleggerisce le cose dal loro peso senza renderle letterarie, senza privarle di un certo sapore di naturalità.

È per questa cura, che l’Ariosto dedicò alla totale compattezza estetica di un mondo naturale, che la sua attenzione non si restrinse alla parola come grumo di sensazione, di pensiero, di tradizione, ma si distese soprattutto sulla linea melodica in cui parole e versi interi soggiacciono ad una fluida unità senza pretese di profondità successive e staccate. Vi sono poeti per cui ogni parola è un poema e testimonia il loro sforzo ad esaurirvi tutte le proprie capacità; vi sono poeti per cui una parola è l’inizio di un getto sensuale ed irriflesso; ma vi sono poeti come l’Ariosto per i quali la pasta musicale è cosí compatta e continua che le parole vi si sfanno senza risalti, quasi desiderose di contribuire ad un unico colore dominante. Cosí anche le notazioni piú importanti si celano in parole senza pretese di originalità e spesso piú che in parole in frasi di pura misura musicale. Per esempio, quando Pinabello induce Bradamante ad affidarsi alla pertica che egli tenderà nell’abisso, pronto a lasciarla cadere, tutta la vita di quella compiacenza delittuosa sembra ridursi nella semplice parola «sorride», ma poi fluisce nella agevolezza della frase che segue:

Sorride Pinabello e le domanda

com’ella salti, e le man apre e stende

dicendole…

Se dunque la sensibilità del poema vive anche di attente luci umane, esse servono però appunto a conservare al colore la sua tonalità non assiderata, alla musica la sua pastosità, la sua liquidità. Cosí anche la sintassi logica sembra coincidere con quella musicale, ma in realtà essa non vivrebbe da sé ed un ghiribizzo di assurdità è sempre pronto a verificare la sua illusorietà e la sua funzionalità rispetto all’estremo risultato artistico di un sopramondo reso tale non da bizzarri capovolgimenti, ma dalla sottile e costante sostituzione dell’anima nuova, dei rapporti nuovi entro le apparenze della vecchia realtà. E ciò che deve bene rilevarsi è che all’Ariosto non interessa di motivare i risultati poetici di un atteggiamento e che solo a ritroso egli poteva determinarne il movente psicologico. È questo soprattutto che si deve considerare leggendo l’Orlando, e cioè che alcuni gridi, alcuni trionfi di passione (Olimpia, Zerbino ed Isabella, Fiordiligi) non sono né dramma, né indifferenza al dramma, vivono il loro giro musicale senza seguire il processo psicologico per cui a quegli scoppi di passione potrebbe arrivare un artista meno fantastico. Nel leggere quindi l’Orlando è da raccomandare ai lettori inesperti di non prolungare mai la vita della poesia fuori delle sue leggi musicali in raffronti razionali, di realtà empirica. E d’altra parte si deve raccomandare di non sentire troppo isolate le singole ottave. L’ottava ariostesca è certo dotata di quell’incanto che una misura base sapeva assumere nei poeti classici, ma in realtà l’Ariosto ha asservito quella unità metrica al rapido svolgimento della propria linea musicale che richiede quella sorta di caduta e di ripresa che c’è fra la chiusa e l’inizio di due ottave e spesso ne ha superato i limiti con gioia, quasi a provare che la sua regolarità era legge intima, capace di spezzarsi e costretta solo ad una multiforme varietà di movimenti che l’ottava inquadra e raccoglie nella sua apparente monotonia.

Il mondo ariostesco è dunque cosí estremamente realizzato da sembrare misurabile con illusoria esattezza: in esso siamo posti a contatto di risultati tra i piú sublimi che l’arte possa raggiungere e vi proviamo quel senso di beato benessere che si prova entrando in Santo Spirito o nell’aria costruita dal semplice convergere delle due ali del palazzo di Urbino. Cosí che si parla di sorriso, di letizia, di facilità, si crede quasi ad un fine epicureismo estetico e ci si accontenta di restare alle soglie di un mondo di una libertà ricca e multiforme.